Danno da sospensione illegittima per il dipendente in cassa integrazione

Fonte: Federico Andreozzi – www.eutekne.info

Il lavoratore collocato illegittimamente in cassa integrazione ha diritto, oltre all’eventuale risarcimento per le retribuzioni perse, anche al ristoro del danno alla professionalità, da quantificarsi in via equitativa sulla base di una percentuale della retribuzione mensile
netta percepita dal dipendente. Infatti, il datore di lavoro che sospende illegittimamente un dipendente lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ogni cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del lavoratore.

In tal senso si è recentemente espressa la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 10267/2024. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado avevano accolto parzialmente il ricorso presentato dalla lavoratrice, collocata illegittimamente in cassa integrazione guadagni straordinaria per oltre 10 anni, condannando la società datrice di lavoro a corrispondere una somma equitativa pari al 30% della retribuzione mensile netta a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di sospensione illegittima dal lavoro. Avverso tale pronuncia l’impresa datrice di lavoro aveva presentato ricorso in Cassazione, evidenziando, tra le altre cose, che secondo i giudici d’appello poteva esserci rotazione in cassa integrazione anche tra lavoratori svolgenti mansioni fungibili laddove, invece, la legge parlava di “meccanismi di rotazione tra lavoratori che espletano le medesime mansioni”. Inoltre, il datore faceva leva sulla circostanza per la quale i giudici di seconde cure avrebbero riconosciuto un danno alla professionalità alla lavoratrice da inattività forzata; secondo il datore di lavoro, tuttavia, il caso di specie doveva qualificarsi quale mera sospensione in cassa integrazione. Secondo la tesi fatta propria dall’azienda datrice non si tratterebbe, in altri termini, di un inadempimento contrattuale ma di una violazione di legge, il cui danno non può che essere rappresentato in via esclusiva dall’elemento pecuniario costituito dalla differenza tra la retribuzione piena e l’integrazione salariale ricevuta.

La Suprema Corte, investita della controversia, rigettava il ricorso del datore di lavoro. I giudici di legittimità osservavano in primo luogo come la lavoratrice fosse comunque in possesso di caratteristiche professionali che le consentivano la rotazione con le altre funzioni del suo settore di appartenenza. Inoltre, evidenziavano come il danno alla professionalità, per sua natura plurioffensivo, richiesto dalla lavoratrice e liquidato nel secondo grado di giudizio, fosse un danno diverso da quello discendente dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cassa integrazione; il primo è, a ben vedere, connesso alla perdita della professionalità, dell’immagine e della dignità lavorativa, mentre il secondo ha natura squisitamente patrimoniale e discende dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto. I giudici di legittimità – riprendendo le argomentazioni offerte nel secondo grado di giudizio – richiamavano quindi una più risalente pronuncia, la n. 10 del 2 gennaio 2002, avente a oggetto l’ipotesi di un lavoratore lasciato in condizioni di inattività per lungo tempo. In tale ipotesi la Suprema Corte aveva affermato in modo lapidario che il comportamento posto in essere dal datore non violava solamente l’art. 2103 c.c. ma era, al tempo stesso, lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente mortificate inevitabilmente dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. Con altre parole, la sospensione del lavoratore configura comunque una lesione di un bene immateriale quale è la dignità professionale dello stesso, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nell’ambito di un contesto lavorativo; tale violazione produce in automatico un danno non economico ma altrettanto rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa.